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il Pinot nero che venne dal freddo

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In tanti vanno a Praga, ogni anno, spinti dai desideri più diversi. Praga città d’oro, città delle cento torri, Praga città dell’amore più o meno costoso, la Praga di Kafka, città bohemien (e cos’altro, sennò?), la Vltava che scorre placida come la birra alla U Zlateho Tygra. La Praga di Radio Italia Oggi, che lanciava in Italia sogni veri e sogni infranti. Pochi fortunati sanno che Praga è anche città del vino, o lo è stata e oggi nulla sa di questo suo enoico passato. Ma quale città ha un quartiere che si chiama “Vigneto” (Vinohrady)? Noi sapevamo qualcosa di questa storia, ma i racconti vogliamo ascoltarli dal vivo: così abbiamo preso il pandino naturalpower, lo abbiamo caricato di vino (non si va da amici con le mani in tasca) e siamo partiti alla volta di Praga. Obiettivo: il Pinot nero del nord, che più a nord non si può.

A Praga abbiamo il campo base: l’albergo, la bella osteria di Bogdan Trojak dove si possono bere i vini dell’Impero, il parcheggio del pandino. E a Praga facciamo il primo incontro con la vigna boema, nel cuore della città, tutto intorno al Castello: è il vigneto di San Venceslao, piccolo fossile del tanto che fu, coltivato a uso e consumo dei turisti che pascolano nei vialetti. Al Wine Bar che sembra tanto raffinato, un bicchiere di Tramin moravo discutibile, senza scelta, prendere o lasciare: non diciamo nulla agli amici Autentistè, che ci prenderebbero in giro per questa nostra stupidissima mossa da turisti della domenica.

La vera destinazione ci impone di risalire i paralleli d’Europa, seguendo la Vltava fino a Melnik, dove si accoppia con l’Elba, e più su ancora fino a Litomerice, dove la “porta boema” segna l’ideale confine tra il mondo germanico e le terre boeme. Un luogo che il Novecento ha segnato col sangue: a pochi chilometri, il ricordo indelebile del campo di concentramento di Terezin lascia traccia di sé, finché memoria regge. Sempre qui, Gavrilo Princip trascorse in prigione i suoi ultimi anni di vita, dopo che con la sua Browning, sulle strade di Sarajevo, nel 1914 fece da starter alla Grande Guerra. In questo crocevia di storie Bogdan e Jan ci accompagnano in occupazioni più leggere,  dove il vino diventa strumento di raccordo e unione, più forte e sincero delle stesse parole.

La prima tappa è a Velke Zernoseky, alla Zernosecke vinarstvi, una grossa azienda (per gli standard boemi) che coltiva la vite su più di 30 ettari di terreno, qui sulle sponde dell’Elba.  Una villa elegante e sobria, che sovrasta e nasconde la sua vera ricchezza: centinaia di metri di cunicoli sotterranei, grandi antri e volte a botte costruite nel XV secolo dai monaci cistercensi, ordine fondato nell’XI secolo a Cistercium (Citeaux) in Borgogna: i nodi della storia lentamente si sciolgono, scendendo infreddoliti tra questi umidi corridoi di mattoni, seguendo i passi sicuri di Frantisek Kupsa il cantiniere. “E’ una storia lunga, quella della viticoltura in questa terra, ed è una storia lunga quella di queste cantine. Mi viene da ridere, perché spesso chi arriva qui nemmeno sapeva che in Boemia si produce del vino”, ci dice divertito l’ing. Kupsa, camminando tra quello che sembra un cimitero gotico di bottiglie, adagiate per terra in lunghe file. “Esperimenti del dott. Kraus, prove di vinificazione di incroci: belle da vedere, ma non credo sia buon vino”, scherza.

Alla Zernosecke vinarstvi l’80% di produzione è legato ai vitigni a bacca bianca, con le  tipologie più comuni in zona: Riesling renano, Tramin, Müller Thurgau, Pinot bianco, Pinot grigio, Chardonnay, Sauvignon. Solamente il 3% è dedicato al Pinot nero, il faro che ci illumina la via, ma il cui assaggio, nel freddo di questo mondo sotterraneo, dobbiamo rimandare. Alla cantina di affinamento, davanti a tini di inox e a enormi botti di rovere boemo vecchie 60 anni, il cantiniere ci propone infatti l’intera gamma dei bianchi della vendemmia 2011. Tutte prove da botte, perché questi vini non saranno imbottigliati prima di settembre. Un Müller Thurgau leggero e fresco, 11,5% di alcol; un Riesling renano, stesso grado, acidità vibrante. Nella nostra breve esperienza di bianchi, in rep. Ceca, ci siamo fatti un’idea: le vendemmie normali danno vini semplici e puliti al naso, con un equilibrio difficile tra la freschezza così sostenuta e la struttura del vino; ma quando si riesce a portare l’uva a maturazione piena, la musica cambia. Per questo chiediamo all’ing. Kupsa se, nel 2011, sono riusciti a fare vendemmie posticipate, i cosiddetti pozdni sber (equivalente degli spätlese tedeschi: la legge ceca classifica i vini in base al livello zuccherino del mosto): domanda ovviamente interessata, vogliamo fare un passo avanti. Infatti arriva subito il miglior assaggio di questa giornata: un Pinot bianco, poco più di 12%, elegante come le decorazioni di Alfons Mucha, bilanciato, pieno pur nella sua consistenza leggera. Ci piace, piace a Jan e Bogdan, piace all’ing. Kupsa che racconta con serietà che non è facile la viticoltura, qui in Boemia, dove si combatte con “le piogge, il freddo e i cinghiali”. Giunti ai pozdni sber, non si torna indietro, ma il livello appena raggiunto non verrà più eguagliato: un taglio pinot bianco- chardonnay, da vigne vecchie di 40 anni coltivate su terreno argilloso, più facile e banale del precedente; un Tramin con 6 g/l di residuo zuccherino (termine che fa ridere Bogdan, che lo scambia per una raffinata sdolcinatezza tra amanti); un Pinot gris all’alsaziana, 15 g/l di zuccheri residui, che si esprime tutto in bocca e al naso resta un po’ al palo. Usciamo dal sottosuolo e, prima di salutare il buon Frantisek, assaggiamo da bottiglia un Sauvignon 2010, kabinett, suchè (secco), dai vigneti di Slany, 20 km a nord- ovest di Praga: 11,5% di Sauvignon che sarebbe utilissimo nella didattica, quando si volesse spiegare il sentore di peperone, foglia di pomodoro, bosso. Qui forse addirittura in eccesso, ma siamo al nord, non c’è posto per agrumi e frutta esotica. Il Pinot nero rimane un problema irrisolto: ne compriamo una cassa e ce ne andiamo solo dopo averlo assaggiato. Il 2009, annata valida per i rossi, vendemmiato a metà ottobre con le uve portate a buona maturazione: imbottigliato dopo più di un anno di maturazione nelle grandi e storiche botti di rovere ceco che abbiamo ammirato prima. Dobbiamo abituarci a questi colori scarichi, a “occhio di coniglio”- come avevamo letto su veltlin.cz-  a queste bellezze algide, come gote pallide arrossate dal freddo o dal pudore. Non facili da amare, per chi, come noi, pur credendosi del nord vive sotto il Danubio, a sud delle Alpi, dove ormai la battaglia del viticoltore è contro il caldo che risale e dove i fuochi, nelle vigne, non si accendono più.

Mangiamo un boccone in piazza a Litomerice e ripartiamo per la seconda tappa, a Male Zernoseky, dall’altra parte dell’Elba, sulla sponda occidentale della “porta boema”. Vinarstvi Sv. Tomase, cantina di san Tommaso o “maso Tommaso”, come dice col suo sorriso acuto il mitico Bogdan. Un vecchio casolare, che solo grazie al furgoncino malandato parcheggiato all’esterno si annuncia come cantina. Il proprietario, Zdeneck Vibyral, è un signore dagli occhiali fini e i capelli arricciati, vestito da campagna, con un’aria bonaria e simpatica che esprime fiducia: non capiremo nulla di quello che dice fino alla fine della visita, ma con la sensazione di cogliere ogni sfumatura delle sue parole. Ci mostra rapidamente i suoi vigneti subito prima che arrivi un acquazzone: riparati nell’edificio, una volta dentro immagini antitetiche ci confondono la mente. In un ambiente dal sapore antico, disordinato e polveroso come le “are” dei nostri nonni, un lampo di modernità è il trattorino rosso fiammante di marca italiana, la piccola Ferrari del simpatico Zdeneck. “Italia”, dice indicandola con gli occhi che sprizzano orgoglio: e sempre “Italia”, puntando il dito sulla pigiadiraspatrice nuova di zecca, anch’essa giustapposta al maso come la DeLorean negli States degli anni Cinquanta, tuffatasi indietro nel tempo. Sembra di essere entrati in una sfasatura spazio- temporale, dove presente e passato si incrociano e lasciano ognuno qualcosa di sé: e non si capisce se prevalga l’uno o l’altro, in un tiro alla fune che mantiene tutto, in fin dei conti, in un beato equilibrio. Il dubbio che ci poniamo, però,  è dove sarà il vino, in tutto questo? Sotto, come prima, nei cunicoli che sembrano aver tarlato la terra boema in ogni dove. Corridoi sotterranei, umidi e freddi, che sembrano finire nel buio: qui sotto c’è un’altra Boemia, fatta di piccole, vecchie barrique di rovere austriaco e botti di acciaio luccicante. Torniamo in superficie e ci sediamo al tavolo imbandito di pane e formaggio: alle spalle di Zdeneck, la sua famiglia partecipa all’incontro, il figlio più piccolo alle prese con la ruspante tecnologia aziendale. Qui a San Tommaso sono stati appena imbottigliati i vini della vendemmia 2010: due anni ci vogliono tutti, per amalgamare le acidità boeme, soprattutto di un 2010 dove a settembre “non si è mai visto il sole”. Pinot grigio, lungo affinamento “sur lie” in acciaio; Pinot nero vinificato in bianco, 13 %, un leggero residuo zuccherino a mitigare la freschezza penetrante, per una tipologia che ci dicono avere una lunga tradizione qui. “Verremo a comprare le basi spumante qua, tra qualche anno”, diciamo scherzando sui cambiamenti climatici, e Zdeneck ci racconta che a inizio Novecento qualcuno qui provò a fare del metodo classico, e pare pure fosse molto buono. Procediamo con le prove da botte dell’annata 2011, più calda, meno adatta ad esprimere le migliori caratteristiche dei bianchi. Poi un Pinot grigio polosuchè (semidolce), 14% di alcol e 20 g/l di zuccheri residui, con piacevoli profumi da botrite. Con il San Lorenzo 2009 ci avviciniamo lentamente alla meta, tra un pezzo di pane e la fatica delle continue traduzioni, indispensabili ad intendere questo vignaiolo appassionato e loquace. E che bel passo, il San Lorenzo che qui chiamano Svatovavrinecke e che vendemmiano a ottobre inoltrato: 12%, due anni di affinamento un po’ in legno vecchissimo un po’ in acciaio, un rosso semplice ma che studia da grande, quasi si atteggiasse a Pinot.

Ci siamo, anche questa volta, al Pinot nero che è come la cima del monte, che quando ci arrivi sei felice ma dispiaciuto, assapori la vetta ma capisci che si deve tornare. Il 2009 ci dicono sia stata un’annata ideale per i rossi, ma a questi boemi non piacciono le cose semplici e quindi preferiscono il 2010, che arriva nel bicchiere direttamente dalla botte, freddissimo come l’anno che lo ha partorito: “questo è più tipico”, sostiene Zdeneck confortato da Bogdan, assaporando con più gusto un Pinot nero che parla di questa terra e che ci risulta ancora un poco straniero. Ma noi, che abbiamo un’idea eclettica dell’identità, ci frega ben poco di difendere il nostro: vogliamo conoscerlo e poi capirlo, e berlo questo Rulandske modrè che qui, più a nord della Borgogna, più a nord della Champagne, racconta la sua storia a chi ha pazienza e voglia di ascoltare.


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